L’onda lunga della Primavera Araba. pt.2

2. Rivoluzioni in Algeria e Sudan

In queste settimane, la seconda parte dell’onda della Primavera Araba si è abbattuta su Algeria e Sudan.

Algeria

L’Algeria uscita dalla guerra di liberazione nazionale contro la Francia ha abbracciato, dopo la parentesi Ben Bella, un modello di pianificazione economica in stile sovietico gestito dai militari ad iniziare da chi ha esautorato Ben Bella, Houari Boumédiène. Questo sistema è stato superato negli anni ’90, con il collasso dell’URSS e del campo socialista, ma all’epoca il pericolo dell’islam politico permise ai militari, salvando il paese, con un golpe di ristrutturare il modello, tenendo saldamente il potere nelle proprie mani.
L’economia algerina tuttavia soffre della sua eccessiva dipendenza dagli idrocarburi che costituiscono il 95% delle proprie esportazioni e il 60% del proprio bilancio statale. L’Algeria è un paese che soffre dello scambio diseguale con l’Occidente a cui vende materie prime senza ottenere in cambio quegli investimenti necessari per diversificare l’economia ed ottenere il know-how occidentale e cede anche la propria manodopera a basso costo.
Su questo rapporto lucra una classe dirigente composta dalla classica borghesia compradora che è riuscita in un primo momento ad utilizzare i proventi del petrolio per stabilire un patto sociale che garantiva agli algerini prodotti di prima necessità a prezzi calmierati, università gratuita e un sistema sanitario pubblico di qualità. Era però un sistema che non poteva durare a lungo, il calo del prezzo del petrolio ha messo in difficoltà la nazione.

Di conseguenza il governo ha pensato bene di sostenere la spesa pubblica utilizzando le riserve monetarie accumulate nel periodo in cui il prezzo del petrolio era alto. In questo modo le riserve monetarie sono diminuite della metà, da 170 miliardi di euro a 70 miliardi di euro, mentre la produzione annua di petrolio passava, grazie all’invecchiamento degli impianti e all’aumento della domanda interna, da 2 milioni di barili a 1,5 milioni in dieci anni.
A tutto ciò aggiungiamo un tasso di disoccupazione giovanile pari al 25% in un paese da 40 milioni di abitanti, di cui la metà composta da giovani, con una situazione che diventa maggiormente drammatica nelle aree più povere del paese, aliene ad ogni forma di sviluppo. Uno sviluppo che sarà possibile in futuro grazie agli investimenti cinesi nel paese, capaci di fornire la base infrastrutturale per la diversificazione dell’economia algerina. Una base fatta di strade, porti, ferrovie, case ma anche di industrie, come quella alimentare e dei fosfati che saranno edificate con la collaborazione di Pechino.

Questa generazione di algerini, che non ha vissuto il dramma della guerra civile degli anni ’90, che non trova uno sbocco lavorativo nonostante un elevato grado di istruzione, è stata la scintilla che ha dato fuoco alla prateria.
La talpa della rivoluzione già stava scavando da tempo, nonostante il paese avesse superato senza traumi l’era della prima onda della Primavera Araba, ad esempio nel 2016, ad ottobre, con lo sciopero di 7 mila operai di una fabbrica statale di autoveicoli a Rouïba contro il precariato e la cattiva gestione dello stabilimento, e a marzo, grazie alla manifestazione dei dipendenti pubblici, una marcia di 250 km degli insegnanti precari da Béjaia ad Algeri, ampiamente sostenuta dalla popolazione.
Nel 2015 ci fu anche una protesta contro la marginalizzazione dell’Algeria meridionale che sfruttò una manifestazione ambientalista contro la distruttiva tecnica del fracking per l’estrazione degli idrocarburi per evidenziare tutta la frustrazione degli abitanti di questa zona del paese. Gli studenti sono gli ultimi arrivati ma hanno dato una decisa accelerata allo smantellamento di un sistema che per troppo tempo ha sequestrato il proprio destino agli algerini.

Siamo davanti ad un movimento pacifico, capace di isolare abilmente, almeno per ora, lo spettro dell’islam politico e di recuperare la migliore eredità lasciata dagli eroici guerriglieri che hanno lottato per la libertà della terra d’Algeria contro il criminale colonialismo francese, nonostante nessuno dei partiti dell’opposizione sia riuscito ad egemonizzare il movimento, piuttosto si sono messi alla sua coda. Il futuro è ancora tutto da costruire e bisognerà vedere se, tolto di mezzo il derelitto Bouteflika, il sistema crollerà o saprà adottare il famoso detto gattopardiano: “cambiare tutto per non cambiare niente.”

Sudan

Un discorso che vale anche per il Sudan, dove dopo trent’anni, grazie alle mobilitazioni iniziate il 19 dicembre 2018, è stato defenestrato il despota Bashir.

Il Sudan è piegato dal carovita, fomentato dal solito pacchetto di austerità imposto come contropartita per i prestiti concessi dal FMI al paese dopo la normalizzazione dei rapporti con l’Occidente.
Questo elemento va inquadrato bene.
Il Sudan possiede un’economia dipendente, come quella algerina, dall’esportazione di petrolio che entra in crisi nel momento in cui cala il prezzo di questa materia prima e il Sud-Sudan, che possiede i 3/4 delle riserve petrolifere del paese e numerose miniere d’oro, ottiene l’indipendenza. Diversamente dall’Algeria, non esiste nessun patto sociale che in qualche modo distribuisca i proventi delle rendita petrolifera, l’80% del budget statale finisce nell’esercito e nelle tasche degli oligarchi al potere mentre appena il 5% viene speso per sanità e istruzione.

Anche la situazione politica è estremamente delicata.
Dal 2000 è in corso un aspro conflitto nel Darfur, il Sud-Sudan ottenne l’indipendenza nel 2011 dopo una lunga guerra civile e nel paese esistono altre zone non del tutto pacificate. Aggiungiamo anche un altro elemento, dal 1989, con l’alleanza tra l’islam politico di Fratelli Musulmani e l’esercito sudanese, è in vigore la Shari’a e il paese ha fornito ampio sostegno al jihadismo in giro per l’Africa, specialmente nel Sahel e in Somalia. Negli ultimi anni, con il tacito assenso di tutto l’Occidente, il Sudan è diventato un prezioso alleato dei sauditi che sostengono, inviando addirittura bambini-soldato del Darfur, anche nel conflitto yemenita.
Bashir ha cercato, con estremo pragmatismo, di non allearsi strutturalmente con nessun paese. Quindi ha ottenuto il sostegno dell’Occidente, come ottimi rapporti commerciali con la Cina, l’amicizia della Russia ma anche di Turchia ed Egitto.

Alaa Salah, la donna sudanese che guida le proteste contro Omar al-Bashir e l’esercito, vestita elegantemente tale da venir definita “regina di Nubia”

Le proteste contro Bashir hanno avuto un’evoluzione particolare.
Partono in zone marginali, come la città operaia di Atbara con motivazioni prettamente economiche dovute al carovita, e si estendono fino alla capitale Khartum dove incontrano le istanze di una classe media ben più organizzata del cartello di partiti politici dell’opposizione, tra cui i comunisti sudanesi, storicamente sempre essenziali nelle proteste di piazza ma incapaci di prendere effettivamente il potere.
Una classe media, quindi, egemone che lotta, cosa strana perché solitamente accade il contrario, contro l’islam politico di Fratelli Musulmani che gioca una partita difensiva in questo contesto.

Bashir è stato defenestrato ma ora restano sul tavolo molte incognite.
La prima è la posizione effettiva dei miliari meno compromessi con il precedente regime, ovvero gestiranno per un periodo di transizione il potere o rapidamente ci saranno nuove elezioni?
La seconda è la possibilità di un regime strutturalmente identico ma senza Bashir ed eventualmente senza islam politico. Questa è indirettamente una battaglia tutta interna all’islam sunnita. Ovvero, l’islam politico sostenuto da Turchia e Qatar o l’autocrazia sostenuta da sauditi e alleati? Da questa risposta dipenderà anche la posizione internazionale del paese. Trovare una versione sudanese di al-Sisi confermerebbe l’adesione al blocco saudita del paese.
Infine i problemi economici: avrà la capacità il nuovo Sudan che sta nascendo di sviluppare il paese, o rimarrà bloccato in questa insostenibile situazione economica ma anche politica, dati i conflitti ancora presenti nel paese?

Nella terza ed ultima parte affronteremo nel dettaglio lo scontro tra islam sunnita e sciita che sta dilaniando il mondo islamico.

—Bollettino Culturale

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